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Aumenta progressivamente la quota di donne laureate in ingegneria, così come delle iscritte all’Albo degli ingegneri. Le laureate sono state nel 2016, secondo gli ultimi dati disponibili elaborati dal Centro Studi CNI, quasi il 31% del totale dei laureati in ingegneria; agli inizi degli anni 2000 la quota era del 16,6%.

I dati Eurostat riportano per l’Italia una quota di laureate in ingegneria e architettura di poco superiore al 34% del totale, un valore più elevato di molti altri Paesi europei: in Francia per esempio è il 26% e nel Regno Unito il 23%.

In crescita anche la percentuale di iscritte all’Albo degli ingegneri: a gennaio 2018 sono 35.580, quasi il 15% degli iscritti totali all’Albo professionale; erano il 12% nel 2010.

Siamo di fronte ad un fenomeno positivo – afferma Armando Zambrano, Presidente del CNI - di crescente presenza delle donne nel mercato del lavoro ed in particolare in quello professionale e tecnico-scientifico, con un apporto determinante delle donne alle dinamiche di sviluppo, riconosciuto ormai da tutti gli studi condotti a livello internazionale. I divari di genere sono tuttavia una realtà. Conoscerne l’entità consente forse di affrontare meglio il problema”.

Per questi motivi occorre allargare lo sguardo oltre il settore dell’ingegneria. Il trend positivo coinvolge l’intero ambito delle discipline STEM, ovvero gli studi in ambito scientifico-tecnologico, dell’ingegneria e della matematica. Le elaborazioni effettuate dal Centro Studi CNI su dati Unesco indicano che attualmente in Italia il 40,5% dei laureati in ambito STEM è composto da donne; agli inizi degli anni 2000 esse rappresentavano il 36%. In altri Paesi industrializzati la percentuale di laureate in ambito STEM è più contenuta rispetto al nostro Paese: in Francia ad esempio è il 31%, in Norvegia il 29%, in Gran Bretagna il 31%.

Questi dati sul progressivo incremento della presenza femminile negli ambiti di studio ed in quelli professionali legati al know-how tecnico-scientifico vanno di pari passo con il progressivo incremento di accesso delle donne alla formazione di tipo universitario. Le statistiche mondiali sottolineano, ad esempio, come attualmente nell’area dei paesi più industrializzati il tasso di iscrizione femminile ai corsi universitari (c.d. gross female enrolement ratio) si attesti al 73%, mentre era il 53% nel 2000.

Eppure dietro un fenomeno in ascesa, in cui si registrano sempre più donne che accedono ai diversi cicli formativi e che sono dotate di alte competenze, persistono molte disparità di genere.

Il mondo migliora, anche e soprattutto, grazie ad una crescente presenza di donne nel mercato del lavoro – dice ancora Zambrano -. Ma le disparità di genere, in Italia e nei Paesi avanzati, sono sottoposte solo a fenomeni di leggera attenuazione. Il gap, per così dire, si riduce, ma persiste. Si va da squilibri strutturali che si attenueranno solo nel lungo periodo, come nel caso dell’accesso delle donne all’università, e sui quali è difficile intervenire, a vere e proprie disparità su cui occorre intervenire con politiche ad hoc. Preoccupante è il fatto che, a parità, di ciclo di studi frequentato, le donne registrino sistematicamente tassi di occupazione inferiore agli uomini, per non parlare delle differenze di trattamento retributivo. E questo è evidente anche nel nostro ambito, quello dell’ingegneria, in cui oggettivamente il mercato del lavoro è piuttosto fluido ed offre ai giovani discrete opportunità di crescita, ma nel quale il gender gap persiste”

Emblematiche sono le elaborazioni del Centro Studi Cni sui dati Ocse. Solo per fare qualche esempio, nel settore dell’ingegneria, nell’area Ocse, il tasso di occupazione maschile è dell’88,7%, mentre quello femminile (pur elevato) scende al 78,8%. In Italia, ad esempio, per gli ingegneri uomini il tasso di occupazione si attesta all’88,5%, mentre per le donne si attesta al 75,2%.

Va mantenuta alta l’attenzione su questi aspetti – conclude Zambrano - e vanno rafforzate ed estese le misure di welfare che consentano, soprattutto alle donne lavoratrici, la conciliazione dei tempi tra lavoro e famiglia. Questo peraltro deve valere non solo per le lavoratrici dipendenti ma in modo più pregnante ed efficace anche per chi esercita il lavoro autonomo. La maternità e la cura dei figli, ad esempio, non possono essere, come spesso accade ancora oggi in Italia un elemento penalizzante per la donna che lavora e un elemento di depotenziamento dei percorsi di carriera. Auspichiamo che una riflessione su questi aspetti non sia fatta solo l’8 marzo di ogni anno, ma in modo più continuativo e consapevole”

 

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